La Sterminatrice di Draghi

Poche cronache riportano per esteso il nome di Drachnost, la Spada Nera Sterminatice di Draghi; gli storici di Gundobad sostengono che fu grazie ad essa che l’Arcimago sconfisse e decapitò la mostruosa idra, le cui teste avrebbero generato i suoi servi più micidiali. Nel 1266, all’insaputa di dotti e di ruffiani, essa giunse nelle mani di un solitario guerriero di Erin, il cui cuore era da sempre votato al bene; il suo nome era Palmir, l’impavido.

Seduti intorno al fuoco, ravvivato dopo il recente scontro, gli avventurieri medicarono le proprie ferite sotto lo sguardo attento dell’esploratore. Fu Egill il primo a prendere la parola, e Turgon, che aveva riconosciuto i sacri simboli di Libra, fu lieto di rispondere alle domande del paladino, e accettò di buon grado di porgergli il suo aiuto nel ritrovamento dell’antico codice dei Gladhrim, custodito molti anni addietro nella prima fortezza monastero dei Cavalieri Grigi di Draskìr.

Mentre Brandano e Galaverna preparavano unguenti e filtri per lenire ulteriormente il dolore delle ferite lasciate dagli Gnoll, Turgon spiegò brevemente il motivo che lo aveva condotto nel territorio di caccia del grande drago: uno dei suoi migliori amici e compagno d’arme, si era unito all’esercito del Re, e aveva probabilmente combattuto contro Mourne il nero nella piana di Ebron; tuttavia non era tornato indietro.

Gli avventurieri si stupirono nell’udire che ad un uomo che non era neppure cavaliere fosse stato concesso di unirsi all’esercito del Re; fu allora che Turgon ne rivelò il motivo. Palmir, guerriero di Erin, recava con sé Drachnost, la leggendaria Sterminatrice di Draghi forgiata negli anni remoti, forse l’unica arma in grado di porre fine all’empia vita di Mourne il nero. Turgon non poteva sapere ciò che era accaduto di preciso, ma l’esito della battaglia era noto; il ramingo non si aspettava di ritrovare Palmir ancora in vita, ma l’amicizia che lo legava all’amico di tante battaglie lo aveva spinto a cercarne le spoglie per dare loro degna sepoltura.

Gli avventurieri discussero a lungo su ciò che avevano appreso, mentre Galaverna tentò di utilizzare i propri poteri arcani sulla corona di Rorik, ritrovata sulla testa di uno degli Gnoll. Tuttavia, il regale copricapo non aveva memoria di molte cose, o forse non voleva rivelarle, e così lo Stregone non fu in grado di raccogliere nessuna informazione che potesse essergli da guida nella ricerca del Re.

All’alba del gioro successivo, mentre John realizzava un rudimentale schienale per la sella di Bartholomeus, fu deciso di recarsi all’antico santuario di Libra, che un tempo sorgeva nei dintorni. Turgon acconsentì a guidare gli avventurieri in quel luogo sacro, abbandonato da più di trent’anni ad opera dell’Inquisizione. Sebbene ben poco del santuario fosse ancora in piedi, la statua della dea, posta su un alto basamento, si ergeva ancora, reggendo maestosamente la bilancia, simbolo di divina giustizia e perfetta equità.

Galaverna tentò di utilizzare nuovamente i suoi poteri sull’artefatto che rinchiudeva il demone; il mago non ebbe il tempo di riflettere su quanto pericoloso fosse esporre la propria mente agli arcaici ricordi di un oggetto che era stato forgiato nelle apocalittiche città erette dagli abitatori dei Reami dell’Incubo. La distorta e breve visione degli altari che sfidavano il cielo da guglie contorte offrendosi alla vista delle blasfeme divinità di Acheron riuscì quasi a soverchiare la mente dello stregone, portandolo al limite della follia. Galaverna gemette e isolò subito la propria mente, mentre la beffarda risata del demone echeggiava tra i doloranti pensieri del mago.

Egill si fece dunque avanti, e recitò l’antico codice dei Gladhrim, che gli diede la forza per affrontare il demone. Il paladino sfidò con coraggio l’empio nemico ma il potere del nero demone era ancora troppo grande. Come una cupa nube di cenere, il malvagio abitatore del Reame dell’Incubo si avventò sullo spirito del paladino, ma il santuario di Libra offriva al suo campione un usbergo che le empie fauci non potevano scalfire. Il demone si ritirò entro i confini impostigli dall’artefatto, ed Egill barcollò: il paladino sapeva che quel primo confronto non era stato vinto.

Turgon richiamò la loro attenzione sulla propria missione, e così gli avventurieri si misero in marcia, sfruttando tutte le ore del giorno per cercare le tracce degli Gnoll. La loro perseveranza venne infine premiata, e mentre seguivano le tracce di un grosso branco, Martin e Rudolf individuarono un ingresso, celato a stento da una siepe di rami contorti e cumulo di neve ghiacciata. Le tracce degli Gnoll erano state cancellate, forse con delle pelli trascinate sulla neve; a tanto giungeva infatti la rudimentale astuzia di quelle blasfeme creature.

Martin ed Egill trovarono un luogo riparato per nascondere i cavalli. John si congedò da Bartholomeus, il quale non era ancora in grado di proseguire nonostante gli attenti medicamenti di Brandano. Il bastone di Galaverna sprigionò luce al comando del mago, e gli avventurieri si accinsero ad esplorare la buia galleria. I segni degli Gnoll erano più che visibili, e dopo aver esplorato alcune caverne, gli avventurieri giunsero nel luogo in cui quelle belve spietate avevano appeso cadaveri umani a ganci di metallo, emulando ciò che avrebbero fatto comuni macellai con i maiali. Brandano dedusse dagli abiti che ancora portavano che non si trattava di soldati, ma degli abitanti di Muria, il cui infelice destino era stato infine svelato.

Dopo aver sorpreso e posto rapidamente fine alla vita di uno Gnoll, gli avventurieri continuarono ad esplorare gli antri sotterranei, scoprendo che le gallerie si estendevano per parecchie centinaia di metri, sempre più in profondità nel sottosuolo. Durante la propria marcia, gli avventurieri si imbatterono in un bizzarro idolo raffigurante una gargolla, fin troppo simile a quelle che essi avevano sconfitto al di sotto della cattedrale di Glenthia; tuttavia, nonostante i loro timori, la gargolla rimase immobile, sorvegliandoli con i suoi vuoti occhi neri mentre procedevano nei tetri cunicoli.

John già sapeva che presto o tardi gli Gnoll li avrebbero trovati, ed infatti il bagliore di occhi malevoli anticipò il basso ringhio degli uomini iena. Tuttavia John era pronto, e urlò forte la sua sfida, mulinando il mazzafrusto, sino a quando gli Gnoll fuggirono, spaventati dalla risolutezza del guerriero. Sarebbero tornati, certo, e in forze, quindi il fabbro propose una ritirata strategica, che tuttavia i suoi compagni rifiutarono di eseguire.

Procedendo sempre più in profondità, gli avventurieri si trovarono infine in una vasta caverna dai molteplici ingressi. Fu allora che i loro nemici attaccarono. Uno dei cunicoli venne invaso improvvisamente dai grotteschi uomini iena, che a decine si riversarono nella caverna: le loro armi brillavano alla luce spettrale del mago, anelando il sangue e la carne degli uomini con la stessa, brutale intensità.