L’alchimista di Lairenne

Si narra che nell’autunno del 1314 gli uomini di Tullvéch si radunarono davanti alla chiesa sconsacrata della Croce Nera per dar voce alle proprie lagnanze e che Gilbert d’Englerrand, che era stato borgomastro fino a quel giorno, ne condividesse la maggior parte; il capitano della guardia aveva infatti vestito con i colori di Lairenne i più infidi mascalzoni che era riuscito a radunare intorno a sé e gli abusi dei suoi sgherri si sommavano ad uno dei peggiori raccolti mai visti prima dalle genti del piccolo borgo. È altresì opinione comune tra i dotti che nessuno degli stizziti cittadini sospettasse a quel tempo di quali terrificanti atrocità le mani di Razàl fossero capaci di macchiarsi.

Quando Grinwald riprese i sensi, ogni fibra del suo corpo gli doleva terribilmente. Il paladino si trovò a giacere su un sofà dallo schienale reclinato, la testa adagiata su uno scomodo cuscino di corda; sulla sua spalla dolente poggiava il capo di Marchesa, ancora immersa in un sonno profondo, mentre Dorian e Bell erano seduti a fianco l’uno dell’altro, anch’essi in apparenza privi di sensi. Più di una lunga coperta di lana traforata era stesa sui quattro i viandanti, e Grinwald ricordò di avere visto in sogno i motivi geometrici che ne componevano la trama, insieme a mani esili che spalmavano un balsamo denso e appiccicoso sulle dita tremanti e sui piedi martoriati del paladino di Libra; compiendo uno sforzo notevole, il combattente sacro si guardò infine intorno.

Gli sfortunati viaggiatori si trovavano in una stanza dall’aspetto confortevole, ma dal soffitto piuttosto basso. All’interno di un camino bruciava una fiamma calda e rassicurante, mentre una grossa scrivania ostruiva in parte un’arcata che si apriva su un ambiente buio; una solida porta sulla sinistra prometteva un’uscita più agevole dal piccolo ambiente che ospitava la compagnia.

Tuttavia fu il profumo del cibo a risvegliare definitivamente Grinwald: su un pentolone agganciato sopra il camino bolliva quello che doveva certamente essere stufato di maiale. Sfinito dalla fame e dalla sete, Grinwald si precipitò verso il vassoio su cui campeggiavano, come in un miraggio, due brocche d’ottone accanto ad alcuni boccali di peltro; il movimento assai scomposto del combattente ebbe l’effetto, forse indesiderato, di svegliare tutta la compagnia, oltre a gettare in terra le lunghe coperte di lana che tutti loro condividevano.

Per lunghi minuti nessuno parlò più del necessario: i quattro viaggiatori bevvero a sazietà l’acqua fresca di entrambe le caraffe e mangiarono senza esitazione più di una generosa porzione di stufato, sebbene Marchesa, memore dell’agguato che era stato loro teso solo pochi giorni prima, riuscì a trattenersi il tempo necessario per assicurarsi che nessuno dei propri compagni cadesse vittima di un qualche veleno; ma in questa occasione, essi trovarono il cibo più saporito di qualsiasi pietanza avessero mangiato in precedenza.

Finalmente giunti a metà della terza ciotola, i viandanti ripresero a conversare tra loro come sono soliti fare gli abitanti dei luoghi civilizzati. Eppure, ognuno di essi poté condividere con gli altri solo ricordi confusi della notte appena trascorsa, nella quale avevano seguito, come in sogno, la luce oscillante della lanterna della misteriosa figura che li aveva soccorsi, fino all’interno di una cupa parete di roccia.

Ad ogni buon conto, era opinione comune che essi fossero stati condotti in un luogo sicuro, e mentre questa consapevolezza si faceva strada nella loro mente, il loro spirito si rinfrancava e si preparava alle prove che certamente avrebbero dovuto affrontare da lì a poco. Grinwald infine si alzò per curiosare intorno, senza però aprire i cassetti della scrivania che aveva innanzi: sentiva di essere un ospite in quella casa senza finestre e desiderava rispettare le proprietà di colei che li aveva salvati conducendoli al sicuro. Il paladino si rammaricò nel constatare che non tutti i suoi compagni avevano in animo di condividere questa premura.

D’improvviso una porta si aprì nell’ambiente scuro oltre l’arcata, e, sulla soglia, essi videro stagliarsi la sagoma della loro salvatrice, ammantata da una pelliccia d’orso bruno. La donna si fermò il tempo necessario per scrutarli da lontano, poi chiuse la porta dietro di sé, e con pochi passi leggeri si unì nella stanza del camino, accolta da parole di gratitudine.

Come avevano indovinato la notte precedente, la donna rispondeva al nome di Elinor; non più giovane, i lunghi capelli corvini dell’alchimista erano striati di grigio, mentre il suo viso era sfigurato sul lato destro dal bacio della fiamma ardente, e dei suoi brillanti occhi di smeraldo soltanto il sinistro guizzava fiero nella penombra dell’angusto rifugio.

Gli avventurieri si presentarono con garbo e taluni con una certa raffinatezza; e una domanda dopo l’altra, essi appresero dell’infelice sorte di Tullvéch, piegata, secondo la teoria di Dorian, da un’antica maledizione perfino antecedente la nascita dello stregone dalle vesti nere.

Di tali fatti remoti Elinor però non aveva alcuna conoscenza, essendo giunta a Tullvéch soltanto sette anni prima, per ricongiungersi con sua sorella Clelia. Ella fu in grado di riconoscere la veste di Dorian, poiché nello stesso anno in cui aveva varcato i cancelli del borgo aveva visto con i propri occhi tre maghi-veste transitare sul ponte che li avrebbe portati al maniero di Lairenne; eppure da quel giorno lontano molti altri nefasti eventi erano occorsi, e la situazione era peggiorata oltre ogni possibile immaginazione.

Sei anni prima, Gauthier aveva raggiunto suo fratello Razàl, che ricopriva già da parecchio tempo il ruolo di capitano della guardia per volere di Lord Raphael. Insieme a lui arrivarono numerosi bravi della peggiore risma, ed essi vennero tutti accolti tra le fila della milizia di Tullvéch, mentre coloro che mostravano anche un minimo di buona volontà ne venivano estromessi dopo essere stati disarmati.

In quell’anno, a causa del cattivo raccolto e dei molti soprusi subiti da Razàl e dai suoi sgherri, tutti gli uomini del borgo si erano dati appuntamento sul sagrato della chiesa della Croce Nera, sconsacrata per volere del Signore di Lairenne parecchio tempo addietro. Il loro intento era quello di invitare Lord Raphael a visitare le strade dell’insediamento, in modo che potesse vedere con i propri occhi di quali nefandezze il capitano della guardia si macchiava nell’esercizio dei suoi poteri.

Fu allora che i due crudeli mezzo giganti compirono quello che sarebbe stato ricordato come il massacro di Tullvéch, volgendo i pesanti cannoni della Torre del Pescatore verso l’interno delle mura e vomitando sugli abitanti il fuoco greco che Elinor stessa aveva preparato per difendere la città. L’alchimista ricordava amaramente quel giorno in cui le sue misture erano state la causa della morte di sì tanti innocenti, poiché coloro che non morirono all’instante agonizzarono nei propri letti per più di un giorno prima di raggiungere il Creatore.

Soltanto allora il Signore di Lairenne discese a Tullvéch: ma ciò che fece, tra le ceneri ancora fumanti del massacro, fu elogiare le azioni del capitano Razàl, che il nobile riteneva avesse stroncato sul nascere una pericolosa ribellione messa in atto dai facinorosi del borgo. Razàl, ben sapendo che l’alchimista aveva combattuto in passato e si sarebbe probabilmente ribellata, aveva fatto trasferire sua sorella al maniero, obbligandola in tal modo a continuare a produrre i suoi letali composti per la sempre più spietata milizia di Tullvéch.

Grande fu il dolore e lo sgomento delle genti della piccola cittadina durante quei tristi anni: ma coloro che pensavano che la situazione non potesse peggiorare dovettero loro malgrado ricredersi poche stagioni più tardi.

Soltanto tre anni erano passati infatti dal massacro di Tullvéch quando Lord Raphael accolse tra le mura del borgo la strega Zethrela, a cui venne concessa la grande casa del borgomastro, in nome di chissà quale servigio ella aveva segretamente compiuto per il signore di Lairenne. La stessa famiglia di Gilbert d’Englerrand, composta dalla moglie e dalle due figlie, avrebbe aiutato la megera nel trasferire i suoi averi all’interno delle mura. Elinor, prigioniera nella sua bottega, non vide mai più nessuna di loro.

Le tribolazioni di Tullvéch tuttavia non erano ancora destinate ad avere fine: quattro mesi addietro, un potente boato era stato avvertito in tutto il borgo, e la Torre Alta vicino al barbacane del maniero era stata sventrata dall’interno; il ponte che da più di un secolo collegava Tullvéch all’imponente castello di Lairenne rovinò subito dopo tra le acque del lago di Greveil.

Elinor supplicò allora Razàl di inviare soccorritori alla roccaforte, nella speranza che sua sorella non fosse stata coinvolta nella tragedia; ma il mezzo gigante rise forte e le rivelò che Clelia era morta più di due anni prima, in seguito alle sevizie che Lord Raphael stesso le aveva inflitto.

Forse Razàl aveva immaginato che lo spirito dell’alchimista fosse ormai prostrato da anni di prigionia, ma si sbagliava: la notte stessa Elinor sciolse le catene con una mistura che aveva sapientemente nascosto nella bottega in cui era stata reclusa e si rifugiò presso le case abbandonate dei minatori, ricostruite dagli stessi nani che Raphael aveva assoldato per iniziare gli imponenti scavi sotto al maniero, circa quindici anni prima. L’edificio in cui la donna aveva nascosto la compagnia era stato scavato proprio dall’infaticabile popolo della montagna, sul fianco dell’alta collina che sorgeva alle spalle di Tullvéch.

Durante il lungo racconto, Elinor condusse i viaggiatori verso la sommità della collina, ove si trovavano le restanti case dei minatori. Lungo la via essi ebbero modo di osservare meglio il castello di Lairenne ma sebbene Elinor li avesse avvertiti che da più di quattro mesi non c’erano segni di vita provenienti dalle mura dell’antica fortezza, i viaggiatori poterono constatare che, con l’eccezione della Torre Alta, del barbacane e del ponte, il resto del maniero non sembrava aver subito danno alcuno, e la Torre Coronata, posta sul luogo più inviolabile dell’isola, si ergeva ancora superba e intatta.

Il vecchio villaggio dei minatori era composto da meno di una decina di abitazioni che mostravano abbondanti segni di incuria e abbandono, ma Elinor rivelò che prima di sparire, inghiottiti dal maniero, i nani avevano riparato una larga cisterna, la cui acqua fredda e pulita sarebbe tornata molto utile di lì a poco: i viandanti dovettero convenire infatti che il profumo emesso dagli indumenti che avevano indosso sarebbe stato giudicato perlomeno intollerabile da qualsiasi creatura dotata di olfatto.

Così i viaggiatori trascorsero il resto della giornata tra abluzioni e conversazioni, e mentre i propri abiti si asciugavano al tepore dei bracieri, essi si immersero in un fitto dialogo per decidere il da farsi.

Quando il sole stava per completare il suo corso, la tesi di Bell sembrò quella che offrisse maggiori possibilità per gli avventurieri, e così la compagnia si risolse ad affrontare suo malgrado la mostruosità gelatinosa del passaggio sotterraneo, che aveva ingurgitato in passato armi e armature assai preziose per i loro bellicosi progetti futuri.

Indossati nuovamente i propri abiti da viaggio e gli stivali dalla bizzarra foggia dei nani, gli avventurieri si congedarono da Elinor dopo essersi equipaggiati con quanto di utile potessero trovare nei vecchi magazzini dei minatori, e così facendo discesero verso le mura di Tullvéch, dallo stesso punto in cui erano risaliti il giorno prima. Il sole era quasi tramontato quando si infilarono nello stretto passaggio, non ancora del tutto ostruito dalla neve.

Muovendosi con cautela all’interno del cunicolo sotterraneo, gli avventurieri riconobbero il pozzo verticale che conduceva alle segrete del borgo, e più d’uno tra loro si domandò se i rozzi carcerieri di Gauthier fossero già al corrente della loro fuga o se stessero ancora attendendo prima di trascinare i loro disidratati cadaveri dalla strega maledetta; essi mossero dunque alcuni passi in avanti e presto la luce della torcia illuminò i teschi e le ossa umane fluttuanti nell’ammasso gelatinoso, che sbarrava l’intero passaggio.

Bell tentò di fiaccare la risolutezza della mostruosità gettando alcune ampolle d’olio nei pressi della creatura dopo aver dato fuoco alla corta miccia di stracci con la quale le aveva preparate; quando le fiamme si furono spente però, nessuno riuscì a capire se il cubo gelatinoso avesse o meno subito gli effetti del piccolo rogo: la creatura infatti non si era mossa. Bell si risolse a versare altro olio sull’estremità della pala che avrebbe usato a mo’ di arma, e si lanciò in battaglia seguito tosto da Grinwald e da Marchesa.

Dorian, dopo aver dato fondo a tutti i suoi incantesimi, non poté far altro che osservare, con apprensione crescente, lo scontro impari che avveniva sotto il suolo alla luce danzante della sua torcia; lo stregone non poté che ammirare la tenacia e la stoltezza insieme dei suoi compagni, che fino all’ultimo si batterono armati di picconi e pale contro l’abominio gelatinoso. Eppure, alla fine, la loro determinazione prevalse, sebbene sia Bell che Grinwald avessero riportato più di una preoccupante ferita al termine di quella lunga battaglia.

Quando il cubo gelatinoso infine si dissolse, gli avventurieri raccolsero il magro bottino che si erano procurati. Con grande sorpresa di Dorian tuttavia, il cubo aveva assorbito anche alcuni oggetti magici, e soprattutto, un contenitore di metallo cilindrico contenente preziose pergamene ricoperte dalle familiari rune degli incantesimi. Da quando aveva perso il suo grimorio lo stregone non aveva potuto contribuire granché agli sforzi dei propri compagni, ma tutto questo stava per cambiare.

Raccolte le forze e medicate le ferite come potevano, gli avventurieri si mossero lungo lo stretto passaggio, sino a giungere sotto al pozzo del chiostro della chiesa sconsacrata, così come era stato loro descritto da Elinor. Marchesa, la più agile tra loro, si arrampicò per il condotto abbastanza in alto per raggiungere la catena a cui era legato il secchio, e risalendo speditamente in superficie abbassò ulteriormente la serie di anelli in modo che i suoi compagni potessero più facilmente raggiungerla.

Fu così che gli avventurieri emersero finalmente tra le bianche strade del borgo di Tullvéch, al riparo di una silenziosa notte la cui luna era misericordiosamente celata oltre una coltre di nubi scure.