Se si vuole dare credito alle antiche superstizioni, è esistito un tempo nel quale persino le ossa degli antichi draghi erano vincolate al volere dei più crudeli e inumani signori dei necromanti; poiché invero i figli di Caino mai esitarono nell’asservire le più maestose creature ai propri comandi, condannandole ad un fato peggiore della morte.
Il capitano della milizia di Tullvéch aprì la porta della Domus Ospitalis della Chiesa della Croce Nera non senza un certo impeto, trovandosi così innanzi gran parte della compagnia che ancora si attardava al capezzale di Fra Castagno. Valamir era certamente più invecchiato, ed i suoi capelli erano diventati quasi tutti grigi, ma l’irsuto combattente indossava ancora con naturalezza la pesante cotta di maglia, sulla quale era stesa obliquamente la fascia con i colori e l’emblema del casato di Lairenne.
Quando il vecchio condottiero della compagnia del Corvobianco giunse a pochi passi incrociò lo sguardo di Grinwald, e i due valorosi amici si salutarono con una vigorosa stretta del braccio. Tuttavia poco dopo Valamir si voltò accigliato verso Marchesa, poiché una grande baruffa era scoppiata nell’area della fiera quando i mercenari inviati da Bell avevano deciso di rivoltare come guanti i carri dei saltimbanchi del circo dei Festosi Giramondo. L’intervento del Secondo Signore della Legge, Evrard, aveva soltanto ingarbugliato la situazione, perché nessuna delle Crozze di Narnen era stata disposta a riconoscere la sua autorità.
Bell si rese conto per la seconda volta che inviare i mercenari era stato un errore, e si riservò di chiamarli nuovamente solo quando fosse stata appurata con certezza l’identità dei nemici di Marchesa; le spade al soldo di Lairenne potevano colpire con la forza di un maglio, ma disponevano della medesima discrezione di una manticora inferocita prigioniera nella bottega di un vetraio.
A malincuore Marchesa accordò di elargire una modesta somma di denaro come risarcimento per l’accaduto, per dimostrare l’estraneità della baronessa di Lairenne a quelle aggressioni. Non volle tuttavia criticare l’operato di Bell, al quale andava riconosciuto il merito di aver tenuto sotto controllo quei brutali mercenari nel corso degli anni; senza la sua vigilanza, le conseguenze della presenza delle cinque compagnie sarebbero state decisamente rovinose per il borgo di Tullvéch.
Dopo circa un’ora buona, Dorian finalmente emerse dalla sacrestia nella quale si era ritirato per meditare sugli accadimenti e di lì a poco mise al corrente i suoi compagni delle sue ragionate supposizioni. Per prima cosa lo stregone trovava alquanto sospetto il fatto che tutta la famiglia dei Bourassa fosse stata coinvolta nella sparizione e nel ritrovamento del frate; Dorian propose quantomeno un approfondimento, magari interrogando direttamente il fabbro di Tullvéch, Koung Bourassa, sui fatti occorsi la notte precedente. In secondo luogo il mago-veste riteneva molto importante rinvenire quanto Nicodemo avesse scoperto e per quale motivo l’Inquisitore desiderasse interrogarlo, frugando se necessario direttamente il suo studiolo, di certo ricavato tra le stanze della Torre Alta.
Dopo aver discusso alcuni dettagli e scambiate le opportune idee, la compagnia si recò presso la dimora di Koung Bourassa, trovandola tuttavia deserta; il fabbro, così come il fratello e il figlio, dovevano trovarsi quindi alla fiera. Grinwald ricordava che Urundro Bourassa avrebbe certamente partecipato alla Grande Competizione di Birra e Sidro, e così, nella speranza di trovare anche Koung, i quattro nobili di Lairenne salirono su una carrozza e tornarono all’area predisposta per l’allestimento del grande torneo.
Come avevano previsto, Urundro si trovava alla Tavernella, pronto a contendere il titolo di campione a chiunque si fosse fatto avanti. Non aveva tuttavia fatto i conti con Grinwald, che insieme al poco profumato Sir Bran McMerry, aveva raccolto la sfida, sedendosi caparbiamente al tavolo che ospitava alcuni tra i bifolchi più avvinazzati della regione. Eppure quel giorno non era destino che un nobile nato vincesse una competizione tanto plebea, ed entrambi i cavalieri finirono sotto al tavolo alla quarta caraffa, storditi dalla forza del sidro del Sole Brillo.
La vittoria sfuggì tuttavia anche al presuntuoso Urundro, e così, mentre Bormungurd della Falce Rossa celebrava la vittoria, la compagnia cercò di approfittare dello stordimento del maggiore dei Bourassa per porgli altre domande, senza tuttavia cavare dal non più giovane ubriacone più di quanto già sapessero.
Di comune accordo quindi, i quattro amici si misero alla ricerca di Koung, finendo per aggirarsi nel mezzo dell’area della fiera dove era stata allestita l’improvvisata arena dei gladiatori, entro la quale il robusto Janech si batteva con un colossale mezz’orco. Quando l’incontro volse al termine, Bell si avvicinò allo stalliere del maniero per chiedergli notizie di Koung, e Janech confermò di aver visto l’amico alla fiera, indirizzando la compagnia verso l’arena degli arcieri, utilizzata impropriamente per alcune competizioni organizzate dal popolino di Tullvéch nel giorno della vigilia del torneo.
E così, giunta nell’arena degli arcieri, la compagnia scorse un gruppetto di spettatori che assisteva al Lancio del Ferro di Cavallo, una sfida popolana che richiedeva grande destrezza e abilità. Nonostante i partecipanti fossero molto giovani, Marchesa decise di cimentarsi nella prova, sbaragliando con grazia e precisione qualsiasi avversario e vincendo il modesto premio simbolico, un’ocarina smaltata sulla quale era stata disegnata l’icona di un ferro di cavallo.
Bell si decise a interrogare il mastodontico Koung Bourassa, che confermò quanto la compagnia già aveva scoperto: di ritorno dalla fiera, il figlio di Koung, Uther, aveva udito dei gemiti tra lo scrosciare della pioggia, e aveva condotto il padre presso il corpo di Fra Castagno, che giaceva riverso nel fango a una decina di passi dal sentiero di Tullvéch. Fu subito evidente che il frate era stato accoltellato, così il fabbro se lo mise in spalla e affrettò il passo verso il borgo, dove consegnò il ferito alle cure di Maya.
Non riuscendo ancora a dare dovuta spiegazione a quanto era accaduto la notte precedente, la compagnia decise di recarsi alla Torre Alta, per indagare sulle ultime ore di vita di Nicodemo e trovare, con un po’ di fortuna, gli appunti vergati dalla mano del giovane stregone. Tuttavia non appena disceso dalla carroza che li aveva riportati al maniero, Bell venne chiamato a gran voce da Skjorn, il quale, emergendo dalla porta laterale del barbacane, lo raggiunse poco dopo.
Skjorn raccontò una versione diversa da quella sostenuta da Valamir, informando Bell della presenza di numerose armi su uno dei carri dei saltimbanchi e lamentando l’impossibilità di sequestrarle per via dell’intromissione del capitano della milizia di Tullvéch. Era chiaro che Skjorn sarebbe stato più che felice di sbarazzarsi del vecchio Corvobianco, ed anche se Bell per il momento non diede ordine di procedere, Grinwald trovò non poco da ridire sul modo in cui stava gestendo la situazione. Dopo un piccato scambio di battute, i nobili decisero di riportare la propria attenzione sull’indagine, ed entrarono all’interno della Torre Alta.
La lunga tavolata, visibile anche dall’ingresso, era ancora ingombra di stoviglie sporche e boccali, segno che gli apprendisti, in assenza di una figura che rappresentasse una qualche autorità, si erano lasciati andare a comportamenti meno rigorosi. Dorian si premurò di correggere immediatamente la situazione, facendosi poi scortare da Gavin presso lo studiolo che Nicodemo condivideva con il Maestro Antòn de Syonn.
Gli appunti di Nicodemo erano sparsi alla rinfusa su un piccolo scrittoio, innanzi ad una voluminosa e ordinata scrivania che certamente apparteneva ad Antòn. Sebbene alcuni cassetti fossero chiusi a chiave, Dorian aveva ancora non poche remore a forzare la proprietà di un Maestro della Torre Nera, e preferì concentrarsi sugli appunti dello stregone scomparso. Bell nel frattempo notò la presenza di un liuto, e Gavin confermò che era stato Nicodemo a richiederlo qualche giorno prima, sebbene egli non sapesse suonare: aveva infatti chiesto all’apprendista di accordarlo e mostrargli con precisione come ottenere le note più semplici.
Fu soltanto al di sotto delle catacombe, in presenza delle ossa dell’Angelo di Bertrando, che parte del mistero venne risolta. Quando Dorian vide le sette pietre, sorrette da esili piedistalli disposti a semicerchio intorno ai resti dell’antico drago, intuì ciò che Nicodemo aveva già scoperto: i cristalli reagivano al suono di determinate melodie, e riproducendo la sequenza scoperta da Nicodemo, lo stregone inorridì nell’osservare quei segni che tutti i necromanti avrebbero saputo riconoscere.
Lo spirito dell’Angelo di Bertrando non aleggiava ancora sulle antiche ossa, ma vi era bensì intrappolato con tutta la sua originaria possanza. Innanzi alla compagnia riposava inerte un Dracolich, asservito ad un potente necromante e pronto a ridestarsi in qualsiasi momento al comando del suo padrone. Sebbene l’Angelo di Bertrando dormisse da secoli, Dorian sentì ancora più impellente l’urgenza di trovare Nicodemo, e si decise a ricorrere ad uno dei suoi sortilegi. Cacciato via Gavin, che riteneva ancora troppo inesperto, la veste-nera afferrò il teschio di uno dei suoi avi da una delle alcove, e recitò la litania che gli avrebbe permesso di scrutare, attraverso le vuote orbite, tutto ciò che anche Nicodemo vedeva in quel momento.
Eppure, con somma mestizia dello stregone, le ancestrali orbite del teschio proiettarono soltanto un vuoto e nero abisso; fu così che Dorian ebbe allora l’assoluta certezza che Nicodemo non camminava più nel mondo dei vivi. Scusandosi con i suoi compagni, lo stregone si allontanò con il cuore gonfio e pesante, affranto per la perdita di un brillante seguace della Torre Nera che non era suo malgrado riuscito a proteggere; mentre gli altri nobili seguivano l’esempio dello stregone, Grinwald scrutò ancora una volta il teschio ghignante dell’Angelo di Bertrando, rabbrividendo al pensiero della tremenda devastazione che avrebbe potuto abbattersi molto presto su tutto ciò che Marchesa aveva pazientemente costruito.