Fu così che il popolo della montagna erse nere torri per sorvegliare il Cancello degli Uccisi, poiché a quel tempo il ricordo del sacrificio di Thorbad era vivido nelle loro menti; ma i secoli passarono e le aule di Uthgar divennero tetre e spoglie. La caligine si posò sulle guglie e i contrafforti e l’ombra empì le torri di cenere.
Quando Manatea giunse alla tenda ove erano alloggiati gli avventurieri il suo mantello era già fradicio. La pioggia incessante avrebbe reso il suo compito ancora più arduo, ma gli ordini di Gregor Mc Morn erano stati precisi e a lei non restava che portarli a compimento. Scostò i tendaggi che riparavano l’ingresso ed entrò, sorprendendo l’intera compagnia nell’atto di alzarsi dai propri giacigli. L’ora era tarda, ma Manatea intuì dai loro volti esausti che avevano dormito solo poche ore. Non si sorprese: erano molti i soldati che in quei giorni perlustravano il perimetro della fortezza di Kaltegar anche nel cuore della notte.
Isaac, che non aveva ancora indossato i suoi abiti, reagì con la consueta freddezza, stemperata da lì a poco dalla cortesia tutta propria di Xirtam. Dopo essersi presentata Manatea lasciò che gli avventurieri si preparassero e uscì fuori, maledicendo silenziosamente la pioggia che non accennava a smettere.
Mentre batteva i denti per l’intenso freddo, l’esploratrice notò incedere uno strano quartetto verso la tenda: a condurlo era Kadmos, il condottiero di Thaern, e alle sue spalle avanzavano due esploratori che scortavano un uomo dall’aspetto fiero e selvaggio. Si trattava di Korg, uno tra i Votli sopravvissuti al massacro degli orchi, e il suo cuore ardeva nelle fiamme della vendetta.
Korg venne ammesso all’interno della tenda, dove ebbe modo di sincerarsi che Dreela fosse sopravvissuta e sopratutto non fosse tenuta prigioniera dagli armigeri di quell’accozzaglia di uomini civilizzati. Rassicurato dalla sciamana, Korg narrò ciò che sapeva, manifestando il desiderio di vendicare la propria gente. Temendo che il giovane avrebbe rallentato la spedizione, Dakkar lo mise alla prova con la scure, riconoscendo che Korg forse mancava di esperienza, ma non di talento.
Dopo circa mezz’ora l’intera compagnia era pronta a partire. Boldar si unì alla spedizione come concordato, e al cancello di Kaltegar il già numeroso contingente incrementò ulteriormente i suoi effettivi con Patrick e la sua scorta. Manatea raggiunse la testa di quell’insolito drappello e condusse la compagnia nel cuore della foresta di Yrglis.
Il viaggio fu lugubre e tetro. La pioggia li accompagnò lungo tutto il tragitto, obbligando gli avventurieri a ponderare ogni passo per evitare di cadere e rendendo la loro marcia penosa. Quando la sera li raggiunse, l’esploratrice valutò la possibilità di accamparsi presso un’alta collina rocciosa, che offriva un modesto riparo dalla pioggia incessante. Tuttavia, prima di poter raggiungere il luogo desiderato, udì un lamento portato dal debole vento: una disperata richiesta di aiuto.
A dispetto del parere del cinico Kadmos, l’intera compagnia decise di prestare soccorso a chiunque ne abbisognasse. Nonostante l’oscurità e la pioggia, Manatea comprese che la direzione che stava seguendo l’avrebbe condotta all’interno della forra di Ethras; sebbene l’esploratrice non avesse mai appreso gli eventi che si erano svolti secoli addietro in quelle terre, conosceva abbastanza bene quell’infido territorio, ideale per tendere o cadere in un’imboscata. Tuttavia, le grida di aiuto si facevano sempre più disperate, e la compagnia abbandonò ogni precauzione, raggiungendo infine un’alta parete rocciosa, circondata da scarpate e dislivelli, su cui torreggiavano i pini-soldato della foresta di Yrglis.
Quando Albrecht aveva scorto il bagliore delle torce, in alto oltre la forra, aveva compreso che attrarre l’attenzione di chiunque le recasse costituiva la sua unica possibilità di sopravvivere. Si era arrampicato in alto con le ultime forze, ignorando il dolore dello spaventoso squarcio al ventre, ma gli orchi lo avrebbero presto raggiunto e ucciso, sempre che quella mostruosa fiera che lo braccava non avesse trovato il modo di risalire la parete rocciosa. Egli non aveva idea di chi potesse reggere quelle fiaccole, ma gli orchi detestavano la luce: Albrecht gridò disperatamente, con il fiato che gli era rimasto e le luci delle torce si fecero più vicine.
La luce magica evocata da Kiran illuminò un tratto della parete rocciosa, sfortunatamente non abbastanza in alto rispetto allo sventurato che li aveva condotti sin lì. L’apparire del globo luminoso però fu seguito da un’esclamazione nella lingua nera, il blasfemo dialetto degli orchi e delle creature della tenebra. Xirtam cercò di ingannare le creature, ma a causa delle torce che portavano, uno tra gli orchi comprese che essi erano uomini, ed il loro cuore si riempì di odio e furia. Mentre gli avventurieri cercavano di ingegnarsi per scalare la parete rocciosa, Boldar li avvertì del pericolo che si avvicinava alle loro spalle: con un basso ringhio, una creatura da incubo emerse nella notte, sorprendendo persino Kadmos con una carica furiosa e travolgente.
L’armatura nera del condottiero gli salvò nuovamente la vita, ma la formazione che aveva organizzato venne scompaginata completamente da una singola carica dell’abominio: forse in passato era stato un orso gigantesco, ma adesso frammenti di lame e aculei protrudevano ovunque dalla sua pelliccia. Chandra comprese che non avrebbe potuto stabilire alcun legame con quella creatura, mutilata e distorta dalla malvagia volontà degli Orchi.
La battaglia che ne seguì fu feroce e cruenta, e solo l’abilità e il coraggio degli avventurieri permisero loro di trionfare. Korg, seguendo l’esempio di Dakkar, balzò sulla schiena della creatura, martoriandola con violenti colpi di scure, ma l’abominio sembrava ignorare anche le più spaventose ferite. Schiacciato sotto il peso della creatura, Kadmos aveva trovato il modo di puntellare la propria spada, e quando la bestia si avventò contro di lui per finirlo, la lama le trapassò il cuore, ponendo fine alla battaglia. Cercando con lo sguardo Chandra, Dakkar si accorse che la sciamana era china su Kiran: il coraggioso o sconsiderato mago, si era infatti librato sul campo di battaglia, determinato a soccorrere il viandante prima che gli Orchi potessero raggiungerlo. Tuttavia, a dispetto dei suoi arcani incantesimi e della sua potente magia, egli giunse troppo tardi, ed un’Orco, che reggeva un bastone totemico simile a quello di Chandra ma ornato da teschi umani, scagliò contro il mago un nefasto sortilegio; Kiran cadde, schiantandosi contro il fango della forra dopo un volo di oltre quindici metri.
Isaac, intuendo che i poteri di Chandra non potevano bastare a salvare il giovane mago, trascinò Dreela verso Kiran, ed ella unì i suoi poteri a quelli della sciamana; tuttavia, lo spirito di Kiran aveva quasi abbandonato il suo corpo, attratto dal Cancello degli Uccisi, e le speranze che la magia trattenesse la sua vita erano poche. Manatea infine spezzò gli indugi, e guidò gli avventurieri presso il rifugio: chiunque fosse il malcapitato viandante sulla sommità della rupe era più che evidente che essi non avevano più le forze per alterare in alcun modo il suo destino. Le grida di scorno degli Orchi risuonavano vittoriose, e Dakkar comprese che essi avevano ghermito la loro preda.
Il giorno successivo Kiran, pallido ed esausto, narrò loro ciò che aveva visto sulla sommità, rafforzando il desiderio degli avventurieri nel trovare traccia degli Orchi e svelare l’identità dell’uomo che le empie creature avevano con ogni probabilità barbaramente ucciso. Affidandosi all’abilità di Manatea, gli avventurieri seguirono le tracce degli Orchi sino ad una solida parete rocciosa, e inerpicandosi oltre una cengia raggiunsero una spaccatura nella roccia, una tetra galleria che sprofondava nelle radici della terra.
Per nulla intimoriti da quella nuova sfida, gli avventurieri si accinsero ad esplorare il sottosuolo, mettendo mano alle proprie torce. Sebbene Korg non fosse abituato a combattere nel sottosuolo, il suo istinto barbarico lo rendeva in grado di muoversi con destrezza rispetto a molti dei suoi compagni. Boldar raggiunse la testa del gruppo, mentre Patrick divise i suoi uomini, impartendo istruzioni nel caso in cui la compagnia non sarebbe ritornata.
L’esplorazione delle gallerie condusse gli avventurieri ad una vasta cava, decorata con stendardi appartenuti a condottieri degli uomini: Xirtam riconobbe quelli di casati non più esistenti, raccolti chissà dove dagli spietati orchi. Mentre si accingevano a lasciare la sala, una voce gutturale li apostrofò dall’alto, e Kiran riconobbe lo stesso Orco che gli aveva quasi strappato la vita sulla sommità della rupe.
La testa dell’uomo che avevano cercato di salvare, adornava adesso il bastone dell’Orco, e Dakkar tremò quando riconobbe il cerchietto di metallo ancora posato sul capo di Albrecht, uno dei più cari amici di suo fratello. Tuttavia proprio in quell’istante Kadmos ordinò che l’Orco venisse abbattuto, e Manatea diede prova di una mira accurata e precisa, colpendo l’Orco sulla spalla a poca distanza dal collo, e costringendolo alla fuga. Gli avventurieri lo inseguirono da presso, fino ad una vasta cava ove giaceva la carcassa del mostruoso orso che avevano abbattuto la notte precedente. Mentre irrompevano nella sala, l’Orco sibilò una tetra invocazione, richiamando l’abominio alla sua non vita. Con uno sgradevole suono di ossa frantumate, l’imponente creatura si erse sulle quattro zampe, snudando ancora una volta le sue lunghe zanne contro gli avventurieri.