- Edith
Quando Sean si recò per la prima volta a Tullvéch per sbrigare gli affari del ricco mercante tileano Florentino, si imbatté nella giovane Miranda e in poco tempo se ne innamorò perdutamente; fu così che, dopo aver prolungato la sua visita nel feudo di Lairenne ben oltre quanto le faccende di Florentino lo avessero richiesto, si congedò dal suo facoltoso protettore e acquistò una modesta abitazione il cui cortile era difeso da sguardi indiscreti da un basso muricciolo di mattoni; solo un anno più tardi, Sean aprì le porte della taverna del Sole Brillo e conquistò la mano di Miranda, prendendola come moglie nella piccola chiesa della Croce Nera.
Dall’unione di Sean e Miranda nacquero tre figli, e la loro secondogenita, Edith, annunciò il suo arrivo con voce squillante proprio mentre il nuovo secolo faceva altrettanto tra le polverose strade del Vecchio Mondo.
Della propria infanzia spensierata Edith non ricorda molti dettagli, trascorsi tra i giochi e i piccoli incarichi che Miranda le assegnava durante le serate più impegnative alla taverna del Sole Brillo. Eppure man mano che gli anni passavano, la giovane aveva cominciato a notare una certa preoccupata agitazione negli ospiti della taverna: gli abusi compiuti dalla milizia al soldo del capitano Razàl cominciavano ad essere troppo numerosi ed efferati per essere ignorati, e il Signore di Lairenne sembrava essere ignaro di quanto stesse accadendo tra le strade del piccolo borgo.
Tuttavia Edith non percepì mai abbastanza la gravità della situazione fino a quando non venne compiuto il massacro di Tullvéch, in cui perirono il padre Sean e suo fratello maggiore Melvin. Appena quattordicenne, Edith dovette improvvisamente farsi carico di molte responsabilità, che poteva condividere solo con la madre Miranda poiché sua sorella minore, Julie, aveva appena quattro anni all’epoca dell’efferata strage compiuta per volere dei mezzo-giganti.
Sebbene le circostanze avrebbero fiaccato lo spirito di molti dei suoi concittadini, da quel giorno la giovane locandiera mostrò invece un temperamento audace e determinato, unitamente a una certa avventatezza dovuta certamente alla giovane età; la locanda del Sole Brillo, costretta a tenere i battenti aperti per ordine di Razàl, divenne segretamente rifugio sicuro per tutti coloro che avevano bisogno di sottrarsi per qualche tempo alle grinfie della spietata milizia.
Alcuni anni più tardi Edith aiutò l’alchimista del borgo a fuggire dalla sua prigionia ed insieme ad Elinor ella si prodigò, con crescente preoccupazione di Miranda, nel compiere ogni azione possibile per intralciare o frustrare le turpi malefatte dei manigoldi al servizio dei disumani mezzo-giganti, veri padroni delle strade di Tullvéch in quegli anni miserabili.
- Elinor
Sono in pochi a conoscere le origini di questa donna non più giovane, ma coloro che sanno sono pronti a giurare che ella nacque da un umile famiglia di contadini nel feudo di Lairenne, poco prima che il Re Stregone varcasse i cancelli di Gulnor recando con sé uno degli occhi dello spietato Tiranno.
Negli anni che seguirono, il Regno di Cheemon venne squassato dagli eserciti del discendente della stirpe di Oss, intenzionato a rivendicare il suo diritto di regnare e molte compagnie di ventura attraversarono i confini della regione, attratte dai sempre più richiesti ingaggi o da un facile bottino: era infatti risaputo che i signori dei feudi e le spade al loro servizio avevano lasciato incustodite le proprie terre per unirsi all’esercito dell’una o dell’altra corona.
Fu durante una di queste razzie che la giovane venne portata via dai mercenari della compagnia del Corvobianco, insieme al barile di frutta entro il quale si era nascosta. Fu grande la sorpresa del capitano Valamir quando, piuttosto affamato, scoperchiò il fusto solo per trovarvi una bambina dai lunghi capelli neri circondata da numerosi torsoli di mela.
Il condottiero del Corvobianco non era noto per il suo buon cuore, eppure decise di non abbandonare quella creaturina alle zanne dei lupi. La mise quindi sotto l’ala protettiva di Rogar, ben sapendo che nessuno avrebbe osato farle del male fintanto fosse stata al suo fianco.
Quando la bambina divenne una giovane ragazza, Valamir decise che era venuto il tempo di istruirla nelle arti dell’amore come anche in quelle della scherma, ma la giovane non gli diede grandi soddisfazioni in nessuna delle due discipline. Il capitano dunque si risolse ad insegnarle a leggere e scrivere, poiché i suoi anni cominciavano ad accumularsi ed egli desiderava ardentemente lasciare traccia delle sue memorie. Affidò quindi la giovane ai chierici di un isolato monastero entro i confini dell’impero, per poi venirla a riprendere tre anni più tardi, istruita come aveva comandato.
La possibilità di accedere al sapere accumulato tra le pagine dei manoscritti si rivelò estremamente preziosa per la giovane, che durante gli anni trascorsi al monastero si appassionò alla lettura di una copia del celebre Laboratorio dell’Alchimista, miniato nientemeno che dal celebre frate Brandano.
In pochi anni Elinor imparò quali sostanze potevano sprigionare un lampo accecante o far scaturire da un’ampolla diaboliche fiamme ardenti; la giovane alchimista tuttavia aveva ancora molto da imparare, e poco più che ventenne, durante la battaglia dei Due Tramonti combattuta alle porte di Varetta, una delle sue misture le scoppiò troppo vicino al volto, ustionando per sempre la metà destra del suo viso e portando via con sé uno dei suoi brillanti occhi di smeraldo.
Da quel giorno Elinor si fece più attenta, e i suoi composti sempre meno instabili e più micidiali. Durante le ultime battaglie combattute dalla compagnia del Corvobianco, Valamir stesso non avrebbe voluto altri al suo fianco che lei, insieme a Rogar e al cupo Dismas.
Quando gli anni e le numerose battaglie fecero sentire il loro peso, Valamir sciolse la compagnia d’arme, poiché sapeva che nessuno tra coloro che lo avevano seguito aveva guadagnato davvero la fiducia di tutti gli altri. Elinor percorse per qualche tempo il cammino insieme a Rogar, ormai vecchio e stanco, e i due si separarono infine sul ponte di Rocaille.
Libera da qualsiasi obbligo nei confronti della compagnia d’arme che l’aveva trascinata in lungo e in largo per i sentieri del Vecchio Mondo, Elinor sentì che era giunto il tempo di ritornare a Lairenne, nella segreta speranza di ritrovare Clelia, la sorella perduta quasi trenta anni prima alle porte del piccolo borgo di Tullvéch.
- Gauthier
Alcuni sostengono che Gauthier, detto “il buono” discenda in parte dagli spietati Giganti e che nelle sue vene scorra lo stesso sangue di Ymir. Sebbene sia difficile appurare la veridicità di tali dicerie, forse messe in circolo da Gauthier stesso, è innegabile che l’aspetto di questo feroce predone suggerisca un qualche inusuale legame con la stirpe di Jotun.
Egli supera infatti di qualche palmo i due metri e mezzo di altezza e possiede una corporatura massiccia e robusta; la testa, poggiata su un collo taurino, è circondata da una folta capigliatura e da una lunga e disordinata barba scura, a stento trattenuta in ordine da pochi e sparuti anelli di metallo.
Eppure non è tanto la pur considerevole mole di Gauthier a rimanere impressa nella mente di coloro che vi hanno avuto a che fare, quanto la scaltra malizia che brilla nei suoi occhi neri come la pece e la potente e sguaiata risata che spesso accompagna le sue malefatte.
È opinione comune che l’appellativo di “buono” con il quale si fa chiamare sia solo un beffardo insulto a coloro che possono vedere con i propri occhi i risultati delle sue scellerate azioni; tuttavia, i gaglioffi della sua risma giurano che tale nomignolo è più che appropriato, soprattutto quando lo si paragona a suo fratello, Razàl “il bello”.
Nella prima decade del XIV secolo, le prodezze di Gauthier erano tristemente note nelle terre che circondavano l’antica capitale del Regno di Gulnor, ma quando le sue selvagge razzie gli fecero guadagnare una taglia troppo elevata per essere ignorata dai migliori cacciatori, egli preferì fuggire, nascondendosi all’ombra delle montagne dei Giganti e lasciando dietro di sé solo una sorda eco delle atrocità che aveva commesso.
- Lorcas
Lorcas Maillere naque a Syonn intorno al 1260, al termine della lunga guerra che per trenta interminabili anni aveva insanguinato le strade tra Gulnor e Cheemon.
Non è molto ciò che si sa sulla vita di questo saggio vegliardo, ma i dotti concordano nell’asserire che gli fu rifiutato in gioventù l’accesso alla prova che gli avrebbe concesso di indossare le solenni insegne di Libra. Non era la fede che mancava nel cuore di Lorcas, ma la sua acuta intelligenza lo portava troppo spesso a dubitare dei dogmi inflessibili della dea della giustizia, o almeno questa era la convinzione del maestro dell’Ordine delle Spade di Delivrer.
Privato del sogno di diventare un paladino, il giovane Lorcas affidò la sua vita alle strade del mondo, e forse fu in quel periodo che si instillò nella sua mente la convinzione di poter trovare, tra polverose pergamene e rari manoscritti, la cronaca di ciò che era accaduto alle lame sacre dello Scudo di Libra, perdute durante l’ultima difesa di Northgar quasi trecento anni prima.
Con la grande pazienza che lo aveva sempre contraddistinto anche negli anni più giovani, Lorcas diede quindi inizio ad una lunga ricerca che lo portò a vagare tra abbazie e monasteri, incoraggiato dalle testimonianze che descrivevano l’inaspettato quanto breve ritrovamento di Martirio nel 1275 e la sua successiva scomparsa nello stesso anno ad opera dell’assassino dai mille volti.
Tuttavia le insistenti domande di Lorcas unite alla crescente influenza del Culto della Croce, gli procurarono negli anni molti nemici: e così, giunto oltre la soglia dei quaranta inverni, egli fu costretto a trovare rifugio presso un remoto villaggio del regno di Cheemon, dove si guadagnò da vivere insegnando a leggere e scrivere ai fanciulli e raccontando le storie più edificanti che circondavano il mito di Delivrer.
Lorcas tuttavia non aveva mai abbandonato del tutto i suoi propositi, e molti anni più tardi l’inaspettata visita di un paladino di Libra, Arthurius, riaccese nel suo cuore la determinazione a compiere ciò che si era ripromesso in gioventù. L’anziano sapiente, i cui capelli si erano ormai tinti di un candido biancore, si rimise dunque in cammino, intenzionato a concludere la cerca delle venerabili lame che meglio di qualsiasi altro simbolo rappresentavano, ai suoi occhi, la celeste equità della dea della giustizia.
- Mastro Dargo
Soltanto coloro i cui occhi possono posarsi sul Libro dei Rancori conoscono l’autentico motivo per il quale un giorno di mezza estate Dargo si lasciò alle spalle la sua vita all’ombra dei monti della Falce Rossa, per offrire, da quel momento in poi, la propria abilità ai giovani regni degli uomini.
Eppure la compagnia della gente alta raramente può soddisfare l’indole di chi guarda con sì tanta passione alle ricchezze nascoste sotto la terra, e così non passò molto tempo prima che Dargo si unisse alla brigata dei nani di Glair, ed insieme ai suoi pari realizzò alcune tra le opere più ingegnose e solide del suo tempo.
Sebbene Dargo mostrasse grande interesse per la lavorazione della pietra, come tutti i nani non disdegnava il rassicurante tepore della fucina, e le armi e armature forgiate dalle sue mani nulla avevano da invidiare a quelle plasmate dai migliori fabbri degli uomini.
Quando il secolo stava per volgere al termine, Glair riconobbe finalmente l’indiscussa abilità di Dargo, onorandolo del titolo di Mastro e di fatto riconoscendone l’autorità in materia di costruzioni; e sebbene il resto della brigata amasse lamentarsi dell’eccessiva pignoleria di quel nano taciturno, nessuno ne avrebbe volentieri fatto a meno, poiché Mastro Dargo svolgeva il suo compito con grande scrupolosità e precisione, ed i risultati erano sotto gli occhi di tutti.
Nei primi anni del nuovo secolo, Glair condusse la sua brigata presso il feudo di Lairenne e Mastro Dargo lo seguì, senza sospettare minimamente che la compagnia di minatori sarebbe sparita, per sempre, tra le fauci del maniero di Lord Raphael.
- Razàl
È opinione comune tra la gente semplice che tra le cime più inaccessibili dei Monti dei Giganti si celino ancora i discendenti della colossale stirpe di Jotun, sebbene l’ultima testimonianza che accerti la comparsa di una di queste creature gargantuesche si possa trovare soltanto tra le cronache di San Anselmo.
È certo comunque che in epoca più recente il sangue dei giganti è stato mischiato in qualche modo a quello degli uomini, ma tra le tante fantasiose tesi è opportuno riportare che questa unione avvenne non per via naturale, ma indotta dalla folle stregoneria della veste grigia Calisto, nel tentativo di generare un esercito di feroci guerrieri con i quali piegare le Torri della Stregoneria di Aghijon al suo volere.
Sebbene la maggior parte delle creature scaturite dagli esperimenti dello stregone morì dopo poco tempo, una coppia di fratelli riuscì a sopravvivere, ereditando dai giganti non solo la mole ma anche altre formidabili capacità; nelle lettere dell’alchimista di Lairenne si accenna alla possibilità che i due mezzo-giganti che un tempo spadroneggiarono tra le strade di Tullvéch fossero in grado di rigenerare qualsiasi ferita, anche mortale, a meno che il proprio corpo non venisse dato alle fiamme o decapitato.
Nessuno sa con precisione quando Razàl varcò i confini del feudo di Lairenne, né in che modo venne scelto per ricoprire il ruolo di boia nella Torre dell’Uomo Morto, ma è certo che nel 1306 venne nominato Capitano della Guardia di Tullvéch e incaricato di mettere ai ferri e interrogare il locale sacerdote della Croce Nera, le cui prediche sferzanti avevano infastidito non poco il signore del feudo.
Dalla sua posizione di potere, Razàl offrì riparo ai peggiori criminali della regione, vestendoli dei colori della milizia del borgo, e dopo qualche anno venne raggiunto dal fratello, Gauthier, seguito dai suoi fedeli tagliagole che avevano messo a ferro e fuoco le contrade vicino la grande città di Gundobad.
A quell’epoca, Gauthier veniva già ironicamente chiamato “il buono” dai suoi seguaci, e fu quindi naturale rivolgersi a Razàl con l’appellativo di “il bello”, considerate le ributtanti fattezze del mezzo-gigante che campeggiavano su un viso piatto e repellente.
Eppure, sebbene l’aspetto avrebbe potuto tranne in inganno un osservatore poco attento, Razàl era di gran lunga il più astuto e crudele dei due fratelli, ed è stato, quasi certamente, l’artefice principale delle più atroci nefandezze che gli abitanti di Tullvéch furono costretti a sopportare per lunghi anni, fino a quando la luminosa spada del paladino Libra non si abbatté con violenza sul suo capo, recidendolo dal corpo e ponendo fine per sempre alla sua disumana esistenza.
- Rogar
Nessuno conosce nei dettagli il passato del vecchio penitente, ma da fonti certe è ormai assodato che egli abbia accettato di unirsi alla Compagnia del Corvobianco negli anni che seguirono la disfatta del Regno di Gulnor.
Persino in gioventù il fisico di Rogar è sempre stato emaciato e debole, creando non poco contrasto con le numerose cicatrici che ricoprivano ogni parte del suo fragile corpo, testimonianze inconfutabili delle numerose battaglie a cui aveva preso parte. A creare ulteriore perplessità è il braccio destro di Rogar che, sempre occultato dai suoi stracci, appare inerte e rigido agli occhi di un osservatore distratto; ed invero il penitente utilizza esclusivamente la mano sinistra per portare a compimento ogni azione del suo misero quotidiano.
Eppure coloro che hanno avuto il discutibile piacere di viaggiare in sua compagnia, potrebbero essere stati testimoni del terribile segreto celato da quel corpo straziato: Rogar è infatti un abominio ed è in grado di mutare il proprio aspetto in quello di una raccapricciante e gigantesca creatura la cui semplice vista può incutere il terrore più profondo in coloro che sono costretti ad affrontarla.
Vi è inoltre la prova che la condanna che il penitente è obbligato a subire abbia in qualche modo allungato innaturalmente la sua vita. Nelle cronache di Malthus, che ebbe occasione di incontrarlo durante una delle numerose imprese della Compagnia del Cinghiale, egli lo descrive come “un uomo stanco e disgraziato che conduce una vita infelice nell’impari lotta contro la maledizione che grava sul suo sangue, prigioniero della perenne ricerca di un qualche perdono per le molte azioni innominabili che hanno macchiato, indelebilmente, la sua anima”.
- Zethrela
Le leggende che circondano le crudeli megere di Morrowind sono ben conosciute dalle genti di Erin, che per molti secoli hanno guardato con grande apprensione i bassi acquitrini che occupavano la penisola settentrionale del regno.
La fama sinistra del luogo tuttavia attirò anche un’altra categoria di malfattori, che abusando del timore scaturito dagli antichi rituali delle streghe, stabilirono nelle grotte e nelle insenature affacciate sul Mare Artigliato segreti approdi per il contrabbando. Fu proprio da quei moli malfermi che, con il trascorrere di molti anni, sorse infine un piccolo borgo che prese per sé il nome della regione.
Man mano che le antiche superstizioni venivano meno, la cittadina crebbe al punto da non poter più celare la sua esistenza, e giunto il nuovo secolo iniziò a versare i tributi dovuti alla corona, sebbene tra le sue strade la legge del re di Erin fosse quasi sempre subordinata alla rapidità con il coltello dei suoi loschi abitanti.
Eppure nelle notti di luna piena, oltre gli acquitrini melmosi, c’è chi giura sia ancora possibile udire gli sgraziati canti e le invocazioni delle streghe di Morrowind, che danzano al suono dei sordi tamburi dei diabolici servi della stirpe di Acheron.
Gli storici sostengono che durante il primo ventennio del nuovo secolo, una tra le più crudeli tra le megere, la malvagia Zethrela, attraversò in qualche modo il Valico delle Gargolle per sfuggire la collera dei paladini di Edra, e trovò infine rifugio tra le ombre della foresta di Evrèl, ove venne raggiunta poco tempo dopo dai malsani e onnipresenti maiali dalla pelle grigia che sempre la seguivano.
Le cronache riportano che, alcuni anni più tardi, il Signore di Lairenne la accolse tra le mura del borgo, come ricompensa per i servigi svolti al suo nobile casato. Eppure è ormai risaputo che la sua sola presenza fu sufficiente a instillare il più puro terrore nel cuore dei già provati abitanti del feudo, e che i miasmi soffocanti che iniziarono a circondare la nuova dimora della strega erano araldi di mali ancor più grandi di quelli già sopportati dalle genti di Tullvéch in quegli anni disgraziati.